Una piacevole scoperta questa autrice indiana che scrive una storia in cui le vicende dei due protagonisti si toccano e si intrecciano continuamente.
Nonostante i moltissimi cambiamenti nel cibo, nelle tradizioni, nel linguaggio questa India moderna presenta ancora fortissimi legami con la propria storia, alcuni purtroppo negativi: le caste, la corruzione, la povertà, la violenza sulle donne.
Eppure c’è ancora spazio per la speranza nel futuro con l’orgoglio di appartenere a un popolo dal grande passato. Vittorio Campana
Anand è un uomo che fa. Come un pioniere, si è aperto la strada in una terra ostile – lo stato indiano somiglia al nostro, invadente e dispotico quando chiede, inesistente quando serve – e intravede finalmente l'orizzonte: la sua è una fabbrica modello, pronta a decollare sul mercato internazionale.
Anche i suoi figli gli sembrano un miracolo, mentre la moglie è capricciosa e insicura.
Nei sogni Anand accarezza un'altra donna: accanto a Kavika, non è più solo, le parole sono calde e vive, si sciolgono in bocca.
E quando di colpo tutto si complica, perché politici rapaci lo tormentano con un subdolo ricatto, Kavika è l'unica che lo sa ascoltare.
Ma qual è il karma di Anand? Proteggere sua moglie per amore dei figli, o dare ascolto ai propri bisogni più intimi e abbandonarsi tra le braccia di Kavika?
Cedere al ricatto che minaccia la sua fabbrica e adeguarsi alla corruzione imperante, o combattere e dire di no?
Kamala è una vita che combatte.
Ha lavorato nei cantieri con il figliolino al collo, dormendo sul marciapiede in una tenda improvvisata.
Fare la serva per la famiglia di Anand le sembra una conquista: ha una casa minuscola in cui tornare la sera, può mandare a scuola il suo amato Narayan.
La sua vita è distante mille miglia da quella dei suoi datori di lavoro, che spendono in un pomeriggio di shopping quello che lei guadagna in un anno, ma Kamala sarebbe contenta così. Se non fosse per la speculazione edilizia che minaccia la sua casa. Se non fosse per la calunnia che rischia di distruggere tutto quello che ha. Nell'India del massimo e del minimo, Kamala e Anand difendono la speranza senza perdere la realtà.
Lavanya Sankaran è nata a Bangalore, nell'India del Sud; come molti altri giovani indiani che ne avevano la possibilità, ha completato i suoi studi negli Stati Uniti. Dopo aver lavorato per due anni in una banca d'affari a New York, ha deciso di tornare a Bangalore, città fantasmagorica dove tutto convive, cultura millenaria e globalizzazione sfrenata, ricchezza facile e destini di estrema povertà. Questo mondo poco conosciuto è al centro della sua prima raccolta di racconti, Il tappeto rosso, conteso dagli agenti letterari americani, best seller assoluto in India e acclamato dalla critica di tutto il mondo. Se i suoi racconti aprivano finestre in tutti gli angoli della città, La fabbrica della speranza ci fa vivere i contrasti più radicali nel cuore di Kamala e di Anand.
È l'arte di comprendere le vite degli altri, che Lavanya Sankaran alimenta immergendosi nei ritmi convulsi di Bangalore e affina nei boschi, dove si ritira di tanto in tanto per dieci giorni di meditazione vipassana. Collabora con «The Guardian» e «The New York Times».
Nonostante i moltissimi cambiamenti nel cibo, nelle tradizioni, nel linguaggio questa India moderna presenta ancora fortissimi legami con la propria storia, alcuni purtroppo negativi: le caste, la corruzione, la povertà, la violenza sulle donne.
Eppure c’è ancora spazio per la speranza nel futuro con l’orgoglio di appartenere a un popolo dal grande passato. Vittorio Campana
Anand è un uomo che fa. Come un pioniere, si è aperto la strada in una terra ostile – lo stato indiano somiglia al nostro, invadente e dispotico quando chiede, inesistente quando serve – e intravede finalmente l'orizzonte: la sua è una fabbrica modello, pronta a decollare sul mercato internazionale.
Anche i suoi figli gli sembrano un miracolo, mentre la moglie è capricciosa e insicura.
Nei sogni Anand accarezza un'altra donna: accanto a Kavika, non è più solo, le parole sono calde e vive, si sciolgono in bocca.
E quando di colpo tutto si complica, perché politici rapaci lo tormentano con un subdolo ricatto, Kavika è l'unica che lo sa ascoltare.
Ma qual è il karma di Anand? Proteggere sua moglie per amore dei figli, o dare ascolto ai propri bisogni più intimi e abbandonarsi tra le braccia di Kavika?
Cedere al ricatto che minaccia la sua fabbrica e adeguarsi alla corruzione imperante, o combattere e dire di no?
Kamala è una vita che combatte.
Ha lavorato nei cantieri con il figliolino al collo, dormendo sul marciapiede in una tenda improvvisata.
Fare la serva per la famiglia di Anand le sembra una conquista: ha una casa minuscola in cui tornare la sera, può mandare a scuola il suo amato Narayan.
La sua vita è distante mille miglia da quella dei suoi datori di lavoro, che spendono in un pomeriggio di shopping quello che lei guadagna in un anno, ma Kamala sarebbe contenta così. Se non fosse per la speculazione edilizia che minaccia la sua casa. Se non fosse per la calunnia che rischia di distruggere tutto quello che ha. Nell'India del massimo e del minimo, Kamala e Anand difendono la speranza senza perdere la realtà.
Lavanya Sankaran è nata a Bangalore, nell'India del Sud; come molti altri giovani indiani che ne avevano la possibilità, ha completato i suoi studi negli Stati Uniti. Dopo aver lavorato per due anni in una banca d'affari a New York, ha deciso di tornare a Bangalore, città fantasmagorica dove tutto convive, cultura millenaria e globalizzazione sfrenata, ricchezza facile e destini di estrema povertà. Questo mondo poco conosciuto è al centro della sua prima raccolta di racconti, Il tappeto rosso, conteso dagli agenti letterari americani, best seller assoluto in India e acclamato dalla critica di tutto il mondo. Se i suoi racconti aprivano finestre in tutti gli angoli della città, La fabbrica della speranza ci fa vivere i contrasti più radicali nel cuore di Kamala e di Anand.
È l'arte di comprendere le vite degli altri, che Lavanya Sankaran alimenta immergendosi nei ritmi convulsi di Bangalore e affina nei boschi, dove si ritira di tanto in tanto per dieci giorni di meditazione vipassana. Collabora con «The Guardian» e «The New York Times».