Questo libro è un barattolo di storie. Ognuna ti porta in un posto diverso, raccontando con una voce a volte calda, altre volte spezzata. In ogni storia si incontrano dei volti, degli occhi che tradiscono emozione, si stringono mani e si parla. Le lingue si mescolano, come gli accenti e le fisionomie dei volti. Ma in ciascuna di queste storie - svelate un po' per volta, con delicatezza - c'è un addio. Questo libro mostra che cosa voglia dire essere profugo, migrante, allontanandosi dai luoghi comuni per attingere a piene mani dalla ricchezza delle relazioni umane. Chiara Pasin
Richard è un filologo classico in pensione, quasi per caso entra in contatto con un gruppo di africani alloggiati in un campo profughi di Berlino. È un uomo solo, vedovo e senza figli, e ha molto tempo a disposizione; in quel luogo si scoprirà capace di ascoltare le vite degli altri, le peripezie e le vicissitudini di chi viene dal Ghana, dal Ciad, dalla Nigeria, storie di lutto, fame, guerra, coraggio e difficoltà. Nel dialogo con gli esuli Richard scorge un’umanità a tratti capace di essere innocente e integra. La sua cultura classica funge da elemento rivelatore, lo aiuta a immergersi in un mondo e in una diversa visione del mondo, a confrontare valori a volte contrapposti. L’antichità e la modernità, l’universalismo e l’interesse individuale, il difficile bilanciamento tra gli ideali e la sopravvivenza.
Gli uomini a cui pone le sue domande sono riusciti ad arrivare a Berlino nell’autunno del 2013, dopo essere sbarcati a Lampedusa. Sono quattrocento stranieri in terra straniera, e tutto per loro è diverso, difficile, alieno. Prima si accampano in una piazza del quartiere Kreuzberg per chiedere aiuto e lavoro, ma la polizia non perde tempo, li sgombera e li ricovera nella zona orientale della capitale. Vitto e alloggio, una prima conquista, e poi un corso per apprendere la nuova lingua. Ma per loro, come per quasi tutti quelli che sono scappati dai paesi di origine per approdare in Europa in cerca di un rifugio e di una casa, la normalità è una conquista difficile. Prima di tornare a vivere si annuncia un’attesa di anni.
Jenny Erpenbeck, tra le più interessanti e innovative scrittrici tedesche contemporanee, non teme l’ambizione dell’analisi politica, della denuncia sociale, e riflette con un romanzo completamente immerso nel presente, quasi al limite della cronaca, del reportage letterario, sui contrasti paradossali della nostra epoca, l’opposizione tra ricchezza e indigenza, libertà e asservimento, tra la cancellazione delle culture e il disegno di una nuova identità.
Nata a Berlino Est nel 1967 da padre di origini russe e madre polacca, Jenny Erpenbeck ha una formazione accademica musicale e teatrale. Il suo esordio letterario, Storia della bambina che volle fermare il tempo (1999, Zandonai 2013) l’ha consacrata come astro nascente della letteratura tedesca contemporanea. Il pluripremiato Di passaggio (2008, Zandonai 2011) la impone definitivamente sulla scena letteraria internazionale, ottenendo un sorprendente successo di pubblico e di critica anche oltreoceano. Con E non è subito sera (2012) ha vinto il prestigioso Hans Fallada Prize. Voci del verbo andare (2015), tra i finalisti del Deutscher Buchpreis, è stato tra i libri più venduti nella classifica dello Spiegel.